L'importanza della cartellonistica bilingue

Vi scrivo da Budapest, inaspettatamente stupenda capitale dell'Ungheria. Questo articolo mi servirà da preambolo ad un altro di ben più ampia tematica. Vi dirò quando sarà il caso di rileggere queste righe. Ungheria, dicevo, o Magyarország in ungherese. Effettivamente si conoscono anche in Italia le popolazioni magiare che occupavano ancestralmente il territorio ungherese, ma sfido i miei lettori a conoscere come si chiama il nostro Paese in lingua ungherese. Olaszország. Olaszország! Posso citare Italy, Italie, Italien, Italia (spagnolo), Italija, İtalya, Italia (finlandese), Itaalia, ma sinceramente dopo averlo qui copia-incollato da Wikipedia, non ricordo nemmeno come si scrive, Olaszország. L'ungherese è una lingua ugro-finnica; il ché significa che è totalmente diversa da quanto siamo abituati a sentire. Ma poco importa l'analisi linguistica; ai fini di questo articolo ci basta assumere che in Paesi diversi si parlano lingue diverse.
A Budapest sto trovando una infinità di cartelli bilingue. Adesivi, istruzioni, foglietti illustrativi, volantini, cartelli stessi, indicazioni di vario genere, megafonia di autobus e persino targhe di marmo sui muri cittadini. Agli occhi di un turista, ciò è estremamente gradevole. Evita inutili perdite di tempo consultano dizionari o tentando di farsi capire con gente del posto.

Ho avuto come l'impressione che l'Ungheria si sia resa conto della difficoltà della sua lingua, della incomprensibilità e impenetrabilità del magiaro e che quindi, per aprirsi al mondo, abbia deciso di adottare un forte bilinguismo. Non ufficialmente, è chiaro, ma comunque a livello molto pratico. Ma se questo è stato il ragionamento seguito dall'Ungheria, perchè non dovrebbe farlo anche l'Italia? O la Francia? Nella mia opinione, la risposta può trovarsi nella presunzione. La presunzione che l'italiano sia una bella lingua mentre l'Ungheria sia uno stato di serie B; nella presunzione che tutti conoscono un po' l'italiano e, in caso negativo, si devono adeguare, perchè è sempre bello imparare l'italiano. Inutile dire che così non è, specialmente per i visitatori intercontinentali. Ed ecco allora che l'Ungheria, prendendo coscienza del suo status di nazione sconosciuta e di serie B, si rende di serie A+, aiutando chi la viene a visitare con l'affermata lingua internazionale, l'inglese. L'Ungheria si renderà così più accogliente, darà un caldissimo benvenuto ai suoi ospiti. E tuttavia, sebbene gli si venga incontro, l'ospite -consiglio intimo- non dovrebbe esimersi dal cercare il contatto con la popolazione locale, cosa che personalmente mi riesce abbastanza bene, perchè altrimenti si tratterebbe di una vacanza in un resort. In un resort, il turista sa di essere in un dato posto solo perchè lo vede scritto nel proprio biglietto, ma è assolutamente in un non-luogo fatto di scritte inglesi, cibo internazionale ed attrattive turistiche esportabili in qualunque faccia del pianeta. Io voglio l'ungherese per primo, voglio non capirci niente, anche deriderlo volendo (o deridermi perchè so che non ci capirò mai niente!) e solo dopo consolarmi con l'inglese in sottotitolo.

Ed ora, un po' di praticità.
E' ormai fuori di discussione l'accoglienza dell'inglese come lingua di comunicazione internazionale. Ciò può essere derivato da varie cause -vedi il dominio economico statunitense- ma anche dalla relatività semplicità della lingua inglese, almeno quella di base. Ok, non è che sia una lingua che mi stravolga col suo incanto, ma mi sta bene che sia adoperata internazionalmente. Tuttavia, c'è un problema di ordine molto pratico. La pronuncia non ferrea, anzi molto flessibile, spesso incomprensibile agli stessi anglofoni, che a scuola infatti studiano -anziché la sillabazione come in Italia- lo spelling. Ad una scala nazionale, date le mie esperienze, posso confermare che c'è una diffusissima incomprensione dentro gli stessi confini dello stato anglofono preso ad esempio. Ampliando il raggio d'analisi, è noto come vi siano oggettive differenze tra l'inglese britannico, statunitense, sudafricano od australiano, con tanto di note spiritose sul tema e reciproci sfottò. Eppure, vi è ancora un altro tipo di inglese, poco spesso preso in esame. L'inglese di chi non non parla inglese; l'inglese di chi non è un nativo anglofono. E' come se fosse ancora un'altra lingua a parte, dal vocabolario certamente più ridotto, ma da una pronuncia ben più comprensibile. Certo, un francese è abituato a emettere certi suoni, uno spagnolo altri suoni e un indiano ancora altri suoni. Ma a grandi linee, l'inglese degli stranieri è una lingua quasi a parte, più facilmente comprensibile all'utente medio internazionale.
E qui viene il mio punto. Come espresso nel primo paragrafo, io vivamente auspico una cartellonistica (o una diffusione megafonica) bilingue in tutte le nazioni non anglofone del mondo, ma ad una condizione. Che sia l'inglesaccio, che sia l'inglese di tutti. E' davvero poco utile diffondere un annuncio di cambio binario di un treno in perfetto inglese in Ungheria che capirà solo quell'unico britannico presente sulla banchina in quel momento, mentre a tutti gli altri turisti stranieri risulterà incomprensibile. Oppure ancora, nei cartelli bilingue, si eviti di usare parole difficilissime, da dizionario, che nemmeno un autentico british userebbe. Lo scopo non è esibirsi ad un concorso di poesia, ma è far passare informazioni molto pratiche. Nel mondo, vi sono più non anglofoni che anglofoni. E mentre l'inglese autentico è spesso solo capito dagli abitanti del Regno Unito, l'inglese di strada, turistico, internazionale, può essere facilmente inteso sia dai britannici -che non dovranno storcere il muso- sia dai visitatori internazionali.

Commenti

Post più popolari