L’accoglimento dei nomi di città straniere in italiano.
L’Europa. Il continente più vario in qualsiasi arte, più ricco di storia, pieno di sconvolgimenti
periodici, popolato da persone fisicamente e culturalmente diverse tra loro; per questo uno
dei più affascinanti. Parigi forse può essere considerata il fiore della sua bellezza, Londra il
centro di cosmopolitismo. La capitale è Borsella e si trova in Belgio. Da lì ho raggiunto anni fa
in treno un amico che si trovava in Erasmus a Lilla. Ultima aggiunta al processo di
aggregazione europeo è la Croazia. Ragusa di Croazia è una della città che più di tutte mi è
rimasta nel cuore, per la bellezza del suo centro storico circondato da mura affacciato su un
mare cristallino. Siviglia in Andalusia è luogo di inaudita tradizione spagnola, a pochi
chilometri dalle rinomate spiagge di Cadice.
L’italianizzazione
Fu principalmente nell’epoca fascista che, in nome di un forte sentimento nazionalista,
vennero trasformati nomi di persone e città
straniere in neologismi italiani. Le zone più
coinvolte dal fenomeno furono ovviamente quelle
di interesse dell’epoca, come il Tirolo del Sud, la
Slovenia, la Croazia, la Valle d’Aosta. Il processo
fu forzoso, con provvedimenti aventi norma di
legge e fatti rispettare con metodi totalmente
fascisti. Alcuni nomi furono tradotti a tavolino
proprio nello spirito di aumentare l’orgoglio
nazionale italiano. Il geografo Ettore Tolomei fu
uno dei principali protagonisti del processo di
traduzione dei toponimi dell’Alto Adige. Anche
lo scrittore Gabriele d’Annunzio contribuì con la
sua fantasia alla trasformazione di alcuni nomi di
città slovene e croate.
Oggi molti toponimi di città straniere tradotti in italiano sono caduti in disuso, dopo solo
60-70 anni dalla loro introduzione. Questo è forse dovuto, ad opinione di chi scrive, al fatto
che tali termini sono stati imposti dall’alto e non sentiti dal basso, come invece è avvenuto -e
tutt’ora avviene- in Francia e in Spagna. Anche l’assenza di una rispettata autorità linguistica
nazionale italiana come la Real Academia Española di Madrid (la cui influenza è di gran lunga
maggiore della nostra Accademia della Crusca, tanto da dettare periodicamente nuove regole
di grammatica persino ai deputati) non aiuta di certo a mantenere alto il controllo sulla nostra
lingua. I nomi di Borsella e del suo vicino aeroporto di Carloré (Charleroi) risultano oggi oltre
il limite del ridicolo. Ragusa di Croazia è confusa con una città siciliana, così come la arcinota
Lesina (l’isola di Hvar) richiama molto una località in provincia di Foggia.
Resistono invece solidamente traduzioni di capitali e città di grande importanza, come
Londra, Barcellona, Marsiglia, Pechino, Monaco, Cracovia, San Pietroburgo etc, ma -
inspiegabilmente- non Nuova York, che invece è tradotta in altri lingue.
Esistono infine alcune città le cui traduzioni vacillano tra l’uso corrente e l’oblio, come
Valenzia e Cordova.
Madrelingua e italiano acquisito
La lingua materna è ciò che ci penetra continuativamente dalla realtà esterna sin dal momento
della nascita. Non forma, cioè, il nostro carattere, ma è uno degli aspetti fondamentali
caratterizzanti l’impianto culturale in cui siamo immersi dal primo giorno di vita. Perchè la
lingua è, letteralmente, l’espressione del Paese di nascita. Il parlare una lingua a livello
madrelingua significa far parte appieno di quel determinato Stato. Anche nel caso di bambini
bi (otri)lingue, vi sarà pur sempre un idioma prevalente, quello del Paese in cui si svolgeranno
i principali avvenimenti e mutamenti della sua vita.
Recentemente anche l’Italia, adeguandosi al resto d’Europa, ha introdotto la richiesta di
possedere un livello minimo (A2) di conoscenza della lingua italiana a coloro che desiderino
ottenere un permesso di soggiorno e lavoro. Ciò, in opinione di chi scrive, è totalmente
condivisibile, sia per motivi di ordine pratico (si pensi all’apertura di un esercizio
commerciale a contatto col pubblico), sia per motivi di adeguamento culturale. Tralasciando
ad altra sede cosa l’autore intende come opportuno “adeguamento culturale”, è importante ai
fini di questa opinione sottolineare come anche il legislatore statale intenda la lingua italiana
come rappresentante del Paese Italia. La conoscenza della lingua italiana è requisito
fondamentale di integrazione. Ancora una volta, la lingua è il Paese e il Paese siamo noi. La
nostra lingua quindi è creata da noi e per noi.
La tesi
Appurato come la lingua madre sia parte fondamentale di ognuno di noi, l’autore può ora
esprimere la sua opinione circa la traduzione dei nomi di città straniere in italiano.
I toponimi stranieri tradotti in italiano devono essere usati il più possibile.
Questa opinione non deriva però da un retroscena culturale patriottico come quello che
caratterizzava il Tolomei negli anni ’30. Al contrario, è derivata dal forte Europeismo e spirito
cosmopolita che caratterizza chi scrive.
Tradurre toponimi stranieri significa fare proprie città e regioni estere.
Significa sentire propria la lontana Città del Capo in Sudafrica, sentire che Edimburgo è
anche nostra. Perchè Edimburgo non appartiene agli scozzesi. E’ abitata, amministrata e
caratterizzata da scozzesi, ma non appartiene a loro. In altre città non è neppure vero che gli
amministratori sono originari o residenti in tale città. Genova non appartiene ai genovesi, non
è di loro proprietà. Ancona è di tutto il mondo. Ancona deve regalare la sua bellezza a tutto il
mondo e tutto il resto del mondo ha il diritto di farla propria, traducendone il nome (si veda il
francese Ancône o lo spagnolo Las Marcas, riferito alla regione di cui la città è capoluogo).
Nell’esporre questa teoria, ho incontrato la resistenza di alcuni scettici. Si chiedevano perchè
Ancona non appartenesse agli anconetani?, che cosa c’è di sbagliato nel motto “Italia agli
italiani”? Non vi è nulla di sbagliato, solo una leggera piccolezza. Il complesso teorico alla
base della mia opinione è quella di rinunciare al dominio psicologico sulla propria città -
regalandone il nome ad altre lingue- per ottenere il cambio il dominio su tutte le altre del
mondo. E’ da notare inoltre come anche chi si batte per la non traduzione dei toponimi, in
realtà egli stesso traduce altri toponimi, come quelli di regioni, stati e continenti. Perchè
Brasile e non Brasil? Perchè Germania e non Deutschland allora? E la Provenza? La Baviera?
La Transilvania? Per non citare poi l’esempio dell’Europa, chiamata in modo differente dai
suoi stessi abitanti. Esiste il significato Europa, ma non il suo unico significante verbale.
Ecco, il Mondo intero dovrebbe essere come l’Europa, abitata da tutti e chiamato in modo
diverso da tutti. Il chiamarla in modo diverso è proprio espressione della bellissima
eterogeneità di culture, perchè tale diversità è caratteristica della nostra stessa natura d’uomo,
non riscontrabile in nessun’altra forma vivente! Tutti gli uomini sono uguali perchè a tutti
loro appartiene ogni angolo della Terra, ma siamo per fortuna tutti
diversi rendendola stupenda, meravigliosa ed interessante. Ed
il meglio arriva al gradino successivo: rendendola bella ed
interessante, gli uomini autoalimentano la loro natura, che è
quella di scoperta e di curiosità. Visti a livello globale, gli
uomini si soddisfano l’un l’altro. Per questo le diversità sono
fondamentali e per questo le lingue devono essere rispettate, anche traducendo i toponimi
stranieri.
Ancora sulla presunta perdita di identità nel caso la propria città venisse tradotta in un’altra
lingua. Chi scrive ritiene che vi siano alcuni elementi di ogni diversa cultura che dovrebbero
essere standardizzati a livello mondiale. Per esempio, le unità di misura, le prese di corrente e
i voltaggi, ma anche -obbiettivo ormai difficilissimo a livello pratico da realizzare- la direzione
del traffico sulle due corsie di una carreggiata. Questo comporterà ovviamente, per qualche
Paese, la rinuncia alla propria presa di corrente. Chi scrive ritiene che, nel caso in cui ad
esempio si scegliesse come standard mondiale la presa tedesca, non ci si dovrebbe sentire
mortificati ad abbandonare la presa italiana. La cultura e l’identità italiana non ne
risentirebbero. Una presa di corrente non è caratteristica fondamentale della cultura italiana.
Nel periodo di transizione fino alla costruzione di nuove case e nuovi impianti elettrici basterà
applicare un adattatore ad ogni apparecchio e pregustarsi gli enormi benefici futuri di avere
una spina elettrica identica a livello mondiale. La trasformazione a livello mondiale del nome
della propria città invece è, al contrario, ciò che valorizzerebbe la città stessa, rendendola più
aperta al mondo e più accogliente. La traduzione del nome in altre lingue è un invito a venire.
E’ addirittura sbagliato, in opinione dell’autore, parlare di traduzione. Alla luce di quanto
esposto, sarebbe più corretto riferirsi ad un accoglimento dei nomi di città straniere nella
lingua italiana.
Esiste, in ogni modo, un problema di ordine pratico. Vi sono più di 8.000 comuni in Spagna,
589 in Belgio e 19.500 negli Stati Uniti d’America. A nessuno è richiesto nemmeno di
immaginarsi di conoscere i nomi originari di ognuno di essi. Se si dovesse conoscere
addirittura la trasformazione italiana, si richiederebbe di sapere a memoria il doppio delle
parole. Chi scrive riconosce, quindi, che vi è un trattamento gerarchico basato
sull’importanza delle città alla base della scelta di quali toponimi tradurre. Con importanza ci
si può riferire al prestigio storico e attuale di una città, al suo mero numero di abitanti, o alla
particolare attrattiva turistica. E questa regola è effettivamente tutt’ora applicata, tanto che i
nomi di regioni e stati stranieri vengono già tradotti senza indugi in italiano, perchè
amministrativamente ad un livello superiore. L’autore ritiene quindi che non si debba
procedere ad una ulteriore estenuante invenzione di traduzioni. Il fine ultimo di questo
papiro non è quello di creare nuove traduzioni, ma di difendere quelle già esistono, già
che si sta assistendo in questi anni ad una loro decadenza verso il collettivo oblio.
Vi è un’ultima appendice da aggiungere a quanto detto. Durante il processo di
italianizzazione fascista si è assistiti anche alla trasformazione in italiano di nomi di persone
straniere. Anche in questo caso, la selezione dei nomi da tradurre si è basata sull’importanza
(politica, scientifica, artistica...) di tale persona. L’opinione di chi scrive è che la traduzione
di nomi di persona stranieri in italiano sia profondamente ingiusta. Si è già trattato,
infatti, di come una città (o una regione o Nazione) sia caratterizzata da chi ci vive e chi la
amministra, ma in realtà non appartiene a nessuno; è patrimonio indisponibile dell’umanità.
Una persona è invece proprietà solo di sé stessa, nessuno può vantare diritti materiali su
questa. Nessuno quindi può prendersi la libertà di trasformarne il nome, di farlo proprio in
un’altra lingua. Una persona è proprietà solo di sé stessa. Tradurre un nome proprio
risulterebbe un’offesa personale, un oltraggio.
Andrea Civitarese
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